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A Torino le Nazioni Unite del cibo da salvare

Posted in Articoli by admin on 24 Ottobre 2008

Apre Terra Madre, etica e gola a braccetto: “Ripartiamo dai contadini”
La rassegna si interseca con il Salone del gusto, aperto fino a lunedì

TORINO – “Bisogna rivalutare la figura del contadino, perché è da lui che si ripartirà per superare la crisi che sta affliggendo tutto il mondo. Ma non so se si capirà che questo è l’unico modo“. Adriano Celentano non ha ancora smesso di crederci, vecchio ragazzo della via Gluck tra i tanti personaggi che hanno nobilitato l’inaugurazione di Terra Madre, sorella etica del Salone del Gusto. Un parterre de roi mai tanto variegato e interessato: attori (Dario Fo e Franca Rame, Lella Costa, Antonio Albanese), politici (Fassino, D’Alema, Milly Moratti, il ministro dell’agricoltura Zaia, i sindaci Chiamparino, Alemanno, Cofferati) , ma anche il procuratore della Repubblica Giancarlo Caselli, Carlo De Benedetti, ambasciatori e consoli di mezzo mondo. Tutti uniti nella lotta per orientare la globalizzazione in maniera virtuosa, usando l’attuale crisi economica mondiale come leva per ricomporre la disastrosa frattura tra uomo e natura.

Ogni due anni, Torino si veste da capitale degli alimenti da salvare, in Italia e nel mondo, insieme alle microeconomie loro collegate: una vera e propria Onu del cibo, che quest’anno i maggiorenti di Slow Food hanno voluto intersecare non solo idealmente, ma anche nella disposizione toponomastica del Lingotto.
Etica e gola a braccetto, nelle “vie del gusto”, dove si alternano bancarelle gastronomiche e mercati della terra, contadini lucani e pescatrici senegalesi (sì, donne), norcini umbri e casari tibetani: il cibo declinato nelle sue accezioni più diverse, primarie, curiose, mai banali. E dietro il cibo, i produttori, con le loro storie di rabbia e perseveranza, spesso segnate dalla solitudine, a volte commoventi.

Ha ragione Celentano: ridare senso all’agricoltura come motore del nuovo millennio non è un concetto di facile applicazione. Ieri mattina, Carlo Petrini ha tuonato contro i governi del primo mondo, che non hanno trovato i 30 miliardi di euro chiesti dalla Fao per dimezzare la piaga della povertà sul nostro pianeta, ma ne hanno scuciti 2.000 per salvare le banche: “E invece, i manager dovrebbero imparare dai contadini, per apprendere dalla loro sapienza secolare la capacità di non buttar via niente, di risparmiare, il riciclo e il riuso. Questa è la sostenibilità che salverà le economie malate. Il mondo contadino, quello che Nuto Revelli ha dipinto come il mondo dei vinti, sarà il nuovo New Deal”. Al suo fianco, Luca Zaia chiosava: “I contadini sono l’unica multinazionale che difendiamo”, posizione sicuramente poco in linea con quella dei suoi colleghi di governo.

Via libera, allora, con i nuovi presìdi – una ventina tra italiani e internazionali – non casualmente guidati dalle api siciliane. Dopo un’estate tragica, segnata da una morìa senza precedenti, dovuta ai pesticidi della categoria nicotenoidi (che se uccidono le api, non faranno benissimo nemmeno alle persone) è stato deciso di far convergere proprio nei saloni del Lingotto gli apicoltori del mondo per lanciare l’ennesimo allarme ecologico. Se è vero che l’ex sindaco di Londra Livingstone aveva posizionato gli alveari nei parchi utilizzando il loro ruolo di sentinelle ecologiche, c’è poco da stare allegri. In compenso, il Comieco – consorzio nazionale per il recupero degli imballaggi – ha presentato una raccolta di menù ispirati alla filosofia del riciclo e della sostenibilità proposti da alcuni supercuochi.

Ma Salone e Terra Madre sono soprattutto allegria e voglia di esserci. Se passate dalla via dei formaggi, non perdetevi il presidio dell’asiago stravecchio, le robiole di latte crudo di capra, il parmigiano invecchiato settantadue mesi. Per chiudere, cioccolato fondente e birra da meditazione. La coppia più bella del mondo, direbbe il ragazzo della via Gluck.

di LICIA GRANELLO

Mille piccole agricolture in rete contro la dittatura dell’industria

In un contesto felice e combattivo i lavoratori della terra si riprendono la scena
Lo scorso anno altri cento milioni di persone sono entrate nel girone degli affamati

Che il lavoro materiale sia fatto della carne dei suoi esecutori (mani, corpi, facce, sguardi) parrebbe un’ovvietà. Evidentemente non lo è più, se è vero che i cinquemila contadini di tutto il mondo riuniti a Torino per la terza edizione di Terra Madre fanno l’effetto di una rivelazione. Pur rappresentando oltre il cinquanta per cento della popolazione terrestre, è come se emergessero da profondità sconosciute. Sopra di loro si estende lo smisurato bagliore dell’economia virtuale, i cui recenti squarci hanno un effetto doppio e contrastante: da un lato angosciano, dall’altro rivelano – e non è certo un male – la fitta trama dell’economia reale.

L’effetto è quello di un derma improvvisamente visibile, e palpitante, perché si è dissolto il trucco che lo copriva e lo trasfigurava. Sempre a Torino, per una coincidenza di quelle che fanno pensare, l’orrendo rogo della Thyssenkrupp ci aveva appena costretto a riscoprire l’esistenza degli operai, a riconsiderarne la consistenza sociale e il valore misconosciuto del loro lavoro. Martedì sera lo Stabile ha aperto la sua stagione teatrale con il durissimo spettacolo di Pippo Delbono su quel rogo atroce, un altro dito nella piaga dopo il bel film di Calopresti. Ieri, in un contesto felice, vitale e combattivo, sono stati i lavoratori della terra (e della Terra) a prendersi la scena, in una festa di volti, lingue, costumi nazionali, musica, progetti per il futuro.

Al Palasport ci sono i produttori in carne e ossa, al Lingotto – per il Salone del Gusto – i loro prodotti, e in entrambi i casi è l’evidenza materiale a toccare i sensi e a costringere a pensare, come raramente accade, ai fondamenti, all’abicì, ai meccanismi profondi della vita umana: quelli biologici, naturalmente, ma anche quelli sociali e identitari, perché ogni singolo pellegrino arrivato a Terra Madre ha da raccontare una comunità, un paesaggio, una maniera di sopravvivere e di vivere, uno sguardo sulle cose che rifiuta di essere oscurato dalla paurosa uniformità produttiva e sociale imposta dall’agroindustria, che per ogni ettaro conquistato e uniformato ne cancella uno con le sue qualità, la sua storia, la sua biodiversità.

“L’economia finanziaria – ha detto la scienziata indiana Vandana Shiva, leader mondiale della nuova cultura contadina – è quantificabile in numeri diciassette volte più grandi dell’economia reale (agricoltura, industria e commercio messi assieme, ndr). Il suo tracollo ci fa capire che la sola ‘real bank’ sia la banca della terra”. Il suo discorso, semplice, potente, caldo, pronunciato in sari turchese davanti a una delle platee più variopinte e multietniche mai viste, è stato ascoltato da un cospicuo parterre di politici, e forse qualcuno di loro ha avuto modo di domandarsi come mai quella semplicità e quella potenza siano quasi spariti dal dibattito politico ordinario, nel quale è sempre più raro imbattersi in parole e pensieri che tocchino davvero la struttura profonda della società, le ragioni della vita, il sentimento del futuro.

Carlo Petrini, presidente di Slow Food, ideatore di questa internazionale contadina che non ha eguali al mondo, ha fatto notare con ragionevole indignazione che l’intero consesso dei Paesi ricchi, quest’anno, non è riuscito a mettere insieme i trenta miliardi di euro stanziati per la lotta alla fame, ma in pochi giorni ha destinato duemila miliardi di euro (quasi cento volte tanto) per rattoppare i buchi della “finanza canaglia”. E se questa colossale sperequazione può apparire, in un paese come il nostro che per nutrirsi spende solo il 15 per cento del suo reddito pro-capite, appena una delle tante incongruenze di un’economia (e di una politica) rattrappita e vassalla degli interessi forti, in molte parti del mondo, dove per nutrirsi si spende oltre il cinquanta per cento del denaro disponibile, tagliare i fondi per la lotta alla fame è una scelta omicida: solo lo scorso anno, mandando a carte quarantotto le previsioni della Fao, altri cento milioni di persone sono entrate nell’enorme girone degli affamati. Quasi un miliardo di umani non ha cibo, o più sovente non ha il denaro per comperarlo. E migliaia di colture ed economie considerate “di nicchia” sono minacciare di estinzione, strozzate dalla distribuzione, assediate dall’agroindustria con le sue sementi brevettate. La capacità di rappresentare la varietà e la molteplicità di queste “nicchie”, di metterle in rete, di farle parlare tra loro, è la ragione di Terra Madre. Il successo mondiale di questa idea dimostra, molto semplicemente, che è stato utile e giusto averla.

di MICHELE SERRA

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