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Le nuove frontiere del biocarburante

Posted in Articoli by admin on 6 Maggio 2011

In Piemonte un centro avanzato per i combustibili di seconda generazione.
È migliore della canna da zucchero brasiliana. Recupero di terreni marginali non utilizzati dall’agricoltura.

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La semplice canna comune, Arundo donax è il suo nome botanico, quella che cresce lungo i fossi o i margini delle strade, rappresenta il futuro dei biocarburanti, in particolare dell’etanolo che può essere addizionato alla benzina. In Brasile l’etanolo ricavato dalla canna da zucchero ormai è una realtà da oltre 30 anni, ma come fare per tradurre anche nei nostri climi questa possibilità che ci viene offerta dalla natura se la canna da zucchero in Italia non cresce? Impresa non facile, che ha richiesto 120 milioni di euro di investimenti e cinque anni di ricerche per arrivare a trovare la pianta più adatta e mettere a punto il processo di lavorazione ottimale.

M&G – I soldi sono stati investiti dal gruppo M&G (Mossi e Ghisolfi), multinazionale con sede in Italia, leader mondiale nella produzione del Pet (la plastica delle bottiglie), 3 mila dipendenti e 3 miliardi di dollari di giro d’affari. Nel 2004 con l’acquisizione della Chemtex il gruppo italiano ha dato una svolta alla propria strategia, entrando nella chimica «verde» dei biocarburanti. E a Rivalta Scrivia, in provincia di Alessandria, utilizzando anche le possibilità offerte dal Parco scientifico tecnologico e dall’onlus EnergEtica, il distretto agro energetico del Nord Ovest, è sorto il laboratorio dove è nato il bioetanolo avanzato di seconda generazione, quello appunto derivato dalla canna comune.

CINQUE CARATTERISTICHE – «Era necessario trovare una pianta che unisse cinque caratteristiche», spiega l’ingegnere Giuseppe Fano, direttore M&G del centro di ricerca di Rivalta Scrivia. «Non fosse alimentare – per uomini o animali – per motivi etici; avesse scarso bisogno di acqua e di concimi; fosse disponibile tutto l’anno; crescesse su terreni marginali poveri e non utilizzati dalle coltivazioni intensive; e fosse autoctona, ampiamente diffusa, disponibile e con un’alta resa. Dopo cinque anni di ricerche e sperimentazioni, l’abbiamo trovata», prosegue Fano. «È la canna comune, che ha tutte le caratteristiche necessarie e inoltre fornisce 40 tonnellate per ettaro di sostanza secca equivalente e, una volta lavorata, consente di ottenere 10 tonnellate per ettaro di bioetanolo, addirittura di più di quanto si ricava dalla canna da zucchero in Brasile».

MOTIVI – L’impegno è trovare prodotti alternativi al petrolio e diminuire la dipendenza dalle importazioni dall’estero che ogni anno costano al Paese miliardi di euro e, tramite i biocarburanti (che hanno un bilancio tra CO2 seqeustrata ed emessa quasi zero) diminuire le emissioni di gas serra. Ma qual è la sostenibilità economica del progetto? In parole povere: quanto costa un litro di bioetanolo? «Il bioetanolo è competitivo se il prezzo del petrolio non scende sotto i 60-70 dollari al barile». E in questi giorni le quotazioni sono intorno a 88 dollari, mentre un paio d’anni fa sono giunte anche a 140 dollari a barile.

STATI UNITI APRIPISTA – Lo scorso ottobre l’Ente di protezione ambientale statunitense (Epa) ha autorizzato nelle automobili costruite dopo il 2007 l’impiego dell’E15, carburante composto per il 15% da bioetanolo e per l’85% da benzina. Per i veicoli costruiti tra il 2001 e il 2006, è prevista un’altra autorizzazione entro il 2011. Sempre gli Usa hanno stabilito che nel 2022 il 58% dei 136 miliardi di litri di biocarburanti che verranno prodotti nel Paese non potranno derivare da coltivazioni alimentari come il mais. Due gli obiettivi: diminuire la dipendenza dalle importazioni dall’estero ed evitare, come avvenuto negli anni 2006-2008, l’aumento eccessivo dei prezzi di prodotti essenziali all’alimentazione umana e animale, come grano, mais e soia. Attualmente negli Usa vengono prodotti 41,6 miliardi di litri di biocarburanti.

CONVENIENZA – «Per essere conveniente, l’etanolo prodotto dalla canna deve però soddisfare altre condizioni: per esempio la cosiddetta filiera corta», spiega ancora l’ingegner Fano. «Stiamo realizzando un impianto pilota a Crescentino, in provincia di Vercelli, da 40 mila tonnellate di bioetanolo che entrerà in funzione nel 2012. Per alimentarlo sono necessarie canne raccolte un’area di 4 mila ettari, che però non devono provenire da una distanza superiore a 30-35 chilometri. Altrimenti le spese di trasporto e il consumo di carburanti diventano eccessivi e il gioco non vale più la candela». Secondo Fano, inoltre, l’impianto ideale dovrebbe avere una taglia di 150-200 tonnellate di bioetanolo, quindi occorrono 15-20 mila ettari coltivati a canna – che si raccoglie tutto l’anno – a una distanza non superiore di 70 km dall’impianto.

ESSENZIALE – Per arrivare a centrare il traguardo che l’Unione europea (e l’Italia) si è data con l’obiettivo 20-20-20, cioè entro il 2020 diminuire del 20% le emissioni di CO2, aumentare del 20% l’efficienza energetica e produrre il 20% dell’energia da fonti rinnovabili, nel nostro Paese sarà necessario produrre 1,5 milioni di tonnellate di bioetanolo. Quindi, come conferma Fano, bisognerà «coltivare» 150 mila ettari ad Arundo donax costruire 8-10 impianti per la produzione.

CICLO PRODUTTIVO – Da quando le canne entrano nell’impianto a quando viene prodotto il bioetanolo passano cinque giorni, anche se recenti studi americani basati sul batterio Zymomonas mobilis nella fermentazione dello xilosio, indicano che il ciclo può essere abbassato a un giorno e mezzo. Il trattamento è semplice e senza additivi chimici, che consumano energia. Dopo lo sminuzzamento, la massa vegetale viene «cotta» e fatta fermentare, più o meno come la birra. Se ne ricava un liquido con un certo contenuto di etanolo che, attraverso altri passaggi arriva a un contenuto di alcol etilico fino al 99%. Come sottoprodotto rimane la lignina, che ha un potere calorifico superiore al legno e viene bruciata per alimentare il processo industriale. Ciò che resta sono acque reflue contenenti carbonio dalle quali si può ricavare ancora metano e biogas e chiudere il ciclo industriale «bio» fino in fondo.
Paolo Virtuani Corriere.it

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